La voce polifonale del silenzio: il grido e l’ultragrido
Giuseppe de Marco


Nessuno canta con voce così pura come coloro che si trovano
nel più profondo dell’inferno; quello che noi prendiamo
per il canto degli angeli è il loro canto.

(F. Kafka)

Gli interpreti di matrice estetica e, variamente, formalistica normalmente disdegnano di occuparsi degli esordî di un autore, per lo più segnati dalla provvisorietà e precarietà dei risultati espressivi, mentre, sovente, è proprio lì che è dato cogliere gli impulsi generatorî di tutto un percorso creativo.
Se, come affermava nel Flauto e il tappeto Cristina Campo, «esiste per ciascuno di noi un tema, una melodia che è nostra e di nessun altro, e che dobbiamo cercare», l’architettura meditata, di simmetrie e rimandi interni, che caratterizza la costruzione di questa opera prima di Giusy Rinaldi (Acanto in fiore) è già di per sé una figura di responsabilità, che rinvia ogni scelta di stile alla ricerca di un ordine interno in cui lingua e pensiero, parole e azioni coincidano in un unico momento aurorale – un gesto significante. In questi versi la parola dell’attesa, della speranza appare una sorta di “Avvento”, in cui tutto è incessantemente orientato verso un interlocutore privilegiato, un “tu” (una persona amata e lontana, come da tradizione del codice lirico) ed è sorretto dalla speranza di un incontro decisivo, unico efficace antidoto contro la minaccia della perdita di senso della realtà e, conseguentemente, del destino. E si potrebbe aggiungere che se questo libro pronuncia le parole come sillabe di una speranza, essa è sempre una speranza per l’altro. Il tema amoroso è, dunque, un sentiero impervio e lungamente agognato verso la verità e la ricerca del valore della vita stessa. Una ricerca che in questo esile ma stratificato libro della memoria si articola in una meditazione, in forma di viaggio, lungo precise coordinate spaziali e temporali: «[…] Attendo un buon messaggero / cui consegnare inviolabili essenze. / Forse la Poesia / potrà accoglierci, benevola».[1]
Più che indugiare sul mero contenuto delle poesie, tenteremo di focalizzare l’attenzione su una rilevante ‘figura’ lemmatica presente in maniera costante nella quasi totalità dei testi. Ha scritto Baudelaire che «per penetrare l’anima di un poeta, o per lo meno la sua principale preoccupazione», necessita cercare «nelle sue opere quali siano le parole che ricorrono più di frequente. La parola tradirà l’ossessione».[2] La indicativa proposta baudelairiana racchiude, indubbiamente, un eccellente criterio di lettura anche per le poesie di Giusy Rinaldi. Difatti, su ventisei testi di cui si compone il libro, ventidue volte si registra l’occorrenza del lessema «silenzio», con le sue sfumature semantiche che, di volta in volta, lo declinano e lo caratterizzano. Potrebbe essere orientativo anche rilevare che, a conferma di una funzione fortemente significante, questo lessema occupa prevalentemente la posizione estrema del verso, raramente tiene la posizione mediana. Ecco un fitto scrutinio del termine: «Solo il silenzio / – in queste ore di piombo – / restituirà al mio cuore / oceani di ricordi»;[3] «Sento il profumo di crostata, / compagno silenzioso / di un’idea ricorrente»;[4] «per la dolce Euridice, / perduta, per sempre, / costretta al silenzio / anche dal suo cantautore.»;[5] «Firenze. Un susseguirsi di silenzi. […]. Ognuno rintraccia e dipinge / il suo trascorso felice con te. /  L’uno con tinte diverse dall’altro. / Poi improvvisi silenzi, turbamenti. […] Ma cosa cerco, cosa voglio davvero? / Riempire i silenzi.»;[6] «Accarezzo il silenzio del tuo corpo […]. Ci scambiamo intese e promesse, / infinite promesse, in silenzio.»;[7] «e potrò guardarti negli occhi, / senza parlare, per sempre»;[8] «Poi… squarci spenti di silenzio.»;[9] «Presagio di un’illusione nuova / che scivola nel silenzio. […] Mi stringe d’assedio l’amaro del dolore / che costituisce soltanto traiettorie mute:»;[10] «dal tepore della tua stanza / dove, ora, non si ode più nulla.»;[11] «Ogni spazio urla / di silenzi inumani / se penso alla tua sorte,»;[12] «Ho ascoltato, per un anno, / il tuo silenzio, / ho rincorso ricordi taciuti […]. Ho ascoltato, per un anno, / il tuo silenzio.»;[13] «Sui marmi bianchi levigati / guizzi di gioia, petali vellutati, / impressi con gesti silenziosi.»;[14] «Ho creduto in te / quando, con garbo, / mi invitavi a ragionare, […] anche col cuore pesante / di sterili silenzi o dispiaceri.»;[15] «Attendono di mutarsi in parole / per elevare un coro / a quell’immagine muta / dall’acanto in fiore, reciso,».[16]
…Tanto nel pensiero quanto nella letteratura fra fine Ottocento e per tutto il Novecento si assegna un ruolo fondamentale alla retorica e all’immaginario del silenzio, collegandoli alla riflessione sul linguaggio. Charles Baudelaire immaginava l’abisso come silenzio, e come orrendo vuoto da cui l’io è attratto come verso la vertigine (I fiori del male, 1861); e già Poe aveva narrato il silenzio come demoniaca maledizione in una prosa del 1837 (Silenzio). Siamo all’esperienza della parola spuntata come fiore del male su quella vertigine attraente che ha anche l’aspetto del caos originario: se il silenzio, come eterno, favorisce l’indistinto, la parola distingue, separa, produce la realtà simbolica. La teoria di Paul Valéry sul silenzio come enigma concerne il riconoscimento di un luogo dell’innocenza, della purezza e dell’originarietà, e perciò la supposizione di un silenzio polivalente e polisemico, che contiene e trattiene molte possibilità. Come egli rileva in Charmes (1922), l’avventura del linguaggio nasce come confronto non sempre indolore rispetto alla materialità del silenzio. Identica intenzione, ma con risultati differenti, è nell’opera di Giuseppe Ungaretti, una vera e propria teoria partita dallo scavo nel silenzio-abisso in cerca della parola (Il Porto Sepolto, 1916) e suggellata dal Sentimento del tempo (1932), dove è detto chiaramente: «Ho popolato di nomi il silenzio» (La pietà). Per Ungaretti l’atto di penetrare nel silenzio, popolandolo con la parola, indica una colpa e insieme una necessità umana: colpa per aver tradito l’innocenza originaria del silenzio e necessità di nominare il mondo per farlo esistere, per scavarlo fuori dal silenzio, dal non detto.
…Il silenzio nella versione novecentesca è pieno, al culmine dell’esperienza fra le cose, nell’eccesso di informazione e «rumore». Tale implicazione riguarda gran parte della poesia della seconda metà del secolo scorso. Piero Bigongiari lo intende come «silenzio figurato», popolato da figure, e allo stesso tempo come qualcosa che sta in ascolto della continuità del discorso umano, sospendendolo ma per farlo riprendere (Dove finiscono le tracce, 1996). Così Andrea Zanzotto invita alle «auscultazioni / di certi sistemi del silenzio / di certe micro vocalità stellari» (Idioma, 1986), aggiungendo che il silenzio non dista dal grido, ovvero che non vi può essere opposizione ma continuità e complementarietà.
….Inoltre, una imponente e significativa produzione di scritti di riflessione, in campi diversi del sapere, si incentra sul ruolo del silenzio. Al riguardo, è doveroso ricordare almeno Roland Barthes, il quale, approfondendo la propria ricerca dell’ascolto in relazione alla voce, ha sostenuto che la voce sta al silenzio come la scrittura sta alla carta bianca, invitando anche ad ascoltare ciò che il soggetto parlante non dice (L’ovvio e l’ottuso, 1982).
Infine, al riconoscimento della stanchezza della parola si è voluto opporre il discorso della retorica del silenzio;[17] George Steiner,[18] che ha elaborato una fortunata teoria sul silenzio come tentazione e alternativa in un’epoca in cui sembra che si parli troppo e si scriva troppo, ha fatto ricorso all’immagine inquietante delle Parabole di Kafka: se alcuni sono riusciti a sfuggire al canto delle sirene, nessuno riuscirà a sfuggire al loro silenzio.]
Ora, alla luce di siffatte premesse e nel solco di una illustre tradizione letteraria che qui si è tentato di delineare per esemplarî campionature, occorre chiedersi: il silenzio, in tutte le sue variazioni compositive sul/ dal tema, quale ruolo riveste nei versi di Giusy Rinaldi? Quali i suoi risvolti? Se non c’inganniamo, l’accezione del silenzio nell’esperienza poetica della Rinaldi sembra assumere la configurazione del «sacro». Un mondo in cui è il grido innanzitutto – il grido della gioia e quello del dolore – la ferita che squarcia il silenzio originario. Un mondo in cui la voce umana è ancora tutta un fremito o un mormorio indistinto. O un sussulto, un trasalimento: incanto della terra, stupore dell’aria.
Il pathos è oscurità primigenia – questo smarrirsi nel buio del pure sentire: “mondo infero” chiuso a ogni luce, inferno nel quale sprofondiamo quando il dolore si abbatte sulle nostre vite o quando siamo ostaggi di pulsioni invincibili che ci sequestrano con cieca potenza. Mondo arcaico pulsante di viscere – come scrive Maria Zambrano – in cui senza scampo, irrimediabilmente siamo perseguitati dalle nostre passioni e in cui il male ci opprime e ci soffoca (quasi fossimo ingabbiati in uno spazio troppo angusto, asfissiati da un eccesso di pienezza, stracolmi di un sentire che ci toglie il respiro) è sempre un male che proviene dal sacro: dal fondo senza fondo della vita.[19] Qui interviene la funzione del «silenzio» ad opera del poeta, in quanto egli, per mezzo del potere regale della parola, conferisce sì figura al sacro – conduce al dire il silenzio [primordiale] –  ma non se ne distacca, non lo abbandona. È una parola che non spegne il silenzio, ma piuttosto risuona al suo interno come un battito d’ali – ora sommesso e lieve, ora ebbro di vita, rapinoso, sfrecciante – nella quiete dell’alba o in quella del tramonto. Parola impregnata di silenzio grazie alla quale il poeta è sempre prossimo alle Madri. Ed è proprio una tale vicinanza al fondo stesso della vita che gli permette di conservare intatto il suo sogno più caro: fare ritorno alla casa del Padre; indicativi, in tale direzione, si rivelano i vv. 16-21 di Quegli attimi (p. 22): «[…] Quegli attimi, / rivoli gravidi in cammino, / verranno con me / quando il tramonto mi consegnerà / a una limpida notte / che ci vedrà finalmente abbracciate».
……La poesia dice sì a ogni cosa che passa; e innanzitutto lo dice a ciò che è più vago – umile e quasi inavvertito nel suo dono di grazia. È amore immerso nelle apparenze adescatrici. È adesione alla vita nella sua immediatezza. Ed è passione viscerale del mondo resa manifesta nel suo stesso verbo. Poiché la poesia, che dice il patire, è anche – come tale – un patire la parola. Nondimeno, questa parola sentita e patita è sottoposta al vaglio dell’intelligenza. In questo contesto si colloca la poesia di Giusy Rinaldi. Essa rappresenta un trionfo del tatto nell’uso di elementi che, se incontrollati, l’avrebbero fatta degenerare in un mero lamento pervaso di sterile sentimentalismo. Spicca, invece, tra le pieghe della scrittura, un originalissimo uso di elementi familiari, che fanno rivivere il concetto di sofferenza individuale, in cui – quasi inevitabilmente – la poetessa trasferisce su di sé qualcosa della corruzione dell’esistenza. La Rinaldi, obbediente ad una vocazione ‘segreta’, si è trovata ad essere poeta. Giammai uno di quei tanti improvvisatori o avventurieri della penna che, scrivono per mera ispirazione, poiché, accettando responsabilmente questo suo destino, ha saputo sapientemente e felicemente respingere la facilità per il rigore. In particolare, colpiscono in quest’opera prima la maturità espressiva che riflette una coscienza poetica avvertita e ben nutrita da una solida consuetudine con i classici della poesia antica e del Novecento; l’equilibrio sempre misurato tra un dettato dal tono cronachistico e fattuale e una corrente lirico-musicale che non scade quasi mai in tentazioni o derive elegiaco-crepuscolari; e soprattutto il contrasto luce-buio, archetipo originario per eccellenza, evocativo del destino di vita e morte, in cui la vita umana si concentra. E poi il ritmo: un ritmo ondoso, con quel continuo rifrangersi di versi lunghi in altri versi più brevi, come istanti molteplici che convergono su uno stesso punto, un hic et nunc, un eterno presente da cui distillare quell’unico istante privilegiato. Al fondo, questo libro di Giusy Rinaldi si distingue per il carattere “memoriale” della parola, di cui si sostanzia la scrittura dei testi. Importa comprendere le modalità dell’espressione, delle finalità perseguite in esse, delle condizioni materiali e morali che l’hanno ispirata e resa possibile.
…La poetessa, ha tentato con quest’opera, di crearsi uno spazio nel quale, proprio grazie alla sua lucidità, e a quel lavoro tormentoso con cui – mentre lima i suoi versi – li sottrae alla sciatta imprecisione di tanta poesia “ispirata”, proietta il suo sogno più caro (e più antico) nell’universo della coscienza e del rigore. Ciò le consente di conferire a questo sogno, che in quanto tale resta immerso nell’ombra, la luminosa trasparenza di un gioiello. Ciò che l’essere umano patisce nel suo inferno (forse la sua passione più antica, inestinguibile) è appunto il sogno di un paradiso sulla terra, la nostalgia di un mondo che lo possa ospitare e in cui possa sentirsi finalmente a casa: non più smarrito, esiliato, straniero a tutto e a se stesso come lo è nel labirinto della sua esistenza. La poesia è il ricordo malinconico e struggente di questo lembo di terra senza pena; è «reintegrazione, riconciliazione, abbraccio che serra in unità l’essere umano col sogno da cui proviene».[20] Dunque, proprio entro il calore di un abbraccio la poesia intreccia se stessa con l’amore, poiché è nell’amore e nell’impeto poetico che la nostalgia del paradiso è patita nel modo più intenso, più cocente. D’altra parte, come attesta il mito di Orfeo, un tale paradiso è nell’inferno; ed è l’amata – seppellita nel buio; in quel mondo sotterraneo in cui – come amante – discende il padre dei poeti stringendo insieme la poesia e l’amore in un solo destino. Ma, di contro, la nostra poetessa scrive:

Non farò come Orfeo
che ha disubbidito
seppure a demoni degli inferi.

Non voglio perderti più,
mai più, figlia cara.

Esplorerò i sentieri dell’anima,
crederò al mistero dell’esistere,
mendicherò tracce, echi di te,
preparerò l’incontro.

Soltanto perché
tu sei capace
di ascoltarmi
di aspettarmi
di mettere da canto
per noi
una tenue fiammella
che mi ridarà il tuo viso
e potrò guardarti negli occhi,
senza parlare, per sempre

                                                     (Non farò come Orfeo, p. 21).

Si conclude, così, nell’àmbito del binomio grido-ultragrido, il diagramma emotivo esistenziale e stilistico di Acanto in fiore, oscillante dialetticamente tra il dolore della vita («d’abissale pena soffoco», Ungaretti) e il suo superamento nell’ultra-grido metafisico, il quale è paragonabile a un ultrasuono, che, nel campo fisico, va al di là della percezione umana.



[1] G. RINALDI, Un vuoto si spalanca ,in EAD., Acanto in fiore, Pescara, Edizioni Tracce, 2011, p. 9.
[2]
CH. BAUDELAIRE, Oeuvres complete, éd. Y. G. LE DANTEC, Paris, Gallimard, 1954, p. 1111).
[3]
G. RINALDI, Un vuoto si spalanca, vv. 5-8, cit.
[4]
La tua valigia rossa, vv. 4-6, p. 10.
[5]
La stella di Euridice, vv. 18-21, p. 12.
[6]
Struggente luogo di silenzi, v. 1, vv. 16-19, vv. 28-29, pp. 14-15.
[7]
China sul tuo volto, v. 33, vv. 38-39, p. 19.
[8]
Non farò come Orfeo, vv. 18-19, p. 21.
[9]
Lamento, v. 13, p. 24.
[10]
La persona da lei chiamata non è raggiungibile, vv. 19-20, vv. 37-38, pp. 31-32.
[11]
Vorrei, vv. 15-16, p. 33.
[12]
Sogni bugiardi, vv. 8-10, p. 34.
[13]
Tu volevi solo… capire, vv. 1-3, vv. 29-30,  pp. 36-37.
[14]
Graffiti di betulla, vv. 6-8, p. 41.
[15]
Ho creduto in te, vv. 21-23, vv. 25-26, p. 44.
[16]
Acanto in fiore, vv. 37-40, p. 47; (nostri i corsivi per far risaltare l’occorrenza del lessema e dell’area semantica affine, oggetto qui di analisi).
[17]
P. VALESIO, Ascoltare il silenzio. La retorica come teoria, 1986.
[18]
G. STEINER, Linguaggio e silenzio [1967],  Garzanti, 2001.
[19]
M. ZAMBRANO, L’uomo e il divino, trad. di G. Ferraro, Introd. di V. Vitiello, Roma, Ediz. Lavoro, 2001, pp. 23-69.
[20]
M. ZAMBRANO, Filosofia e poesia, trad. di L. Sessa, Intr. Di P. De Luca, Bologna, Edizioni Pendragon, 1998, p. 101.

 

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